Apr 28

Sa Die de sa Sardigna: l’intervento della presidente della Regione.

La presidente della Regione, Alessandra Todde, ha partecipato oggi, in consiglio regionale, alle celebrazioni della “Sa Die de sa Sardigna”.

Questo il suo intervento:

“Presidente Comandini, consigliere e consiglieri, ragazzi e ragazze, noi sardi abbiamo diritto a festeggiare noi stessi e la nostra storia. Ed è con emozione che prendo la parola per celebrare con voi “Sa Die de sa Sardigna”.

Per troppo tempo ci siamo raccontati che di storia non ne avevamo, dando per buono che il nostro passato fosse solo un susseguirsi di dominazioni, un vuoto di vera storia, quella con la S maiuscola, quella prodotta da soggetti attivi che lottano, creano, sognano. Oggi siamo qui a ricordare a noi stessi, e a chiunque ami questa terra, che abbiamo avuto una storia nostra, imbevuta di mondo, intessuta di grandi aspirazioni, certo complicata da cadute ma anche ricca di momenti alti. Siamo un popolo che ha affrontato contraddizioni ma anche depositario di grandi potenzialità che ancora dobbiamo dispiegare totalmente. Conoscendo questa storia, condividendola, meditandola, traducendola giorno dopo giorno noi costruiamo gli strumenti per alimentare il nostro desiderio di unità, libertà e prosperità.

Per questo dobbiamo festeggiarci senza incensarci: Sa Die non è e non deve essere un giorno di parole roboanti a compensazione degli altri 364 giorni dell’anno. Sa Die non è e non deve essere una sbornia di fierezza o di rivalsa che ci esime dal fare i conti con la nostra coscienza e la nostra azione politica ogni giorno dell’anno. Sa Die non è il fine ma è un impegno. L’impegno a conoscerci, a fare i conti con noi stessi. Per migliorarci, per agire in modo differente. L’autodeterminazione, lo abbiamo detto, cammina sulle spalle di un popolo istruito. Un popolo consapevole di sé. La nostra coscienza nazionale di sardi è un compito, e Sa Die è l’occasione per assumere l’impegno a svolgere questo compito con slancio rinnovato, costante, convinto, chiamando alla partecipazione ogni donna e uomo di Sardegna. A maggior ragione lo dico parlando a voi giovani, che siete i costruttori del presente e del prossimo futuro. Il nostro patto generazionale si è rotto e possiamo ricostruirlo attraverso la conoscenza della nostra storia che ci aiuti a creare una nuova comune coscienza collettiva.

Sa Die non è un giorno solitario: non lo fu allora e non deve esserlo oggi. Gli eventi che commemoriamo non iniziarono e non finirono in quel 28 aprile 1794. Quella giornata di sollevazione – che la parte più timorosa della classe dirigente immediatamente bollò come “emozione popolare” – affondava le sue radici alla metà del Settecento, nella riscoperta da parte dei sardi della loro diversità nazionale, così come nella crescente consapevolezza popolare di una condizione di ingiustizia di cui il feudalesimo era il segno più appariscente. Questa corrente, alimentata carsicamente dalla nostra lunghissima storia di sovranità, testimoniata dal rifiorire della lingua sarda, si alimentava al contempo delle correnti di pensiero illuministe, riformiste, rivoluzionarie che attraversavano l’Europa. Per questo Sa Die fu più di una ribellione estemporanea. Per questo il suo culmine non è la cacciata temporanea della classe dirigente sabauda e la sua esemplarità non risiede nello spirito di rivendicazione che innerva le “cinque domande” che la classe dirigente sarda rivolse con ingenua fiducia al sovrano sabaudo.

Sa Die ci parla di tempi costituenti. Tempi in cui un parlamento riprende vita, la virtù patriottica accende gli animi, le nostre comunità sperimentano patti federativi per liberarsi dal giogo feudale, una parte importante della classe dirigente sarda pone la felicità e la dignità della Nazione sarda come suo obbiettivo. “Un Regno non mai Colonia d’alcun altra Nazione, ma separato ed indipendente dalli Stati di Terraferma”, così si esprime il Parlamento sardo una volta autoconvocato nel 1793. “La Nazione Sarda contiene in sé stessa delle grandi risorse per potere sviluppare una grande forza coattiva, onde fare rispettare la sua costituzione politica”, così recita L’Achille della Sarda Liberazione, uno dei pamphlet simbolo del triennio rivoluzionario sardo.

Non è questa l’occasione per discutere su come e perché questo spirito si sia infranto, tanto da arrivare a noi offuscato se non completamente dimenticato. L’occasione odierna è piuttosto quella di guardarci nello specchio della storia e capire insieme se, proprio grazie a questa storia, possiamo fare di più e meglio per la nostra gente e la nostra terra. Se possiamo trovare in essa alimento per delle sfide enormi, come quelle di chi deve affrontare le molteplici crisi che sembrano condannare la Sardegna a un destino di spopolamento e spoliazione.

Nel 1798, nel suo Essai sur la Sardaigne indirizzato da Parigi al Parlamento Sardo, il grande giurista sassarese Domenico Alberto Azuni scriveva: “Il mio unico scopo è ricordare alla Nazione lo studio dell’economia politica, e di stimolarla a mettere ogni cura nel commercio, nell’industria, nelle manifatture, nella navigazione. La posizione dell’isola al centro del Mediterraneo, tra i due grandi continenti d’Africa e d’Europa; la molteplicità delle sue produzioni, le cui considerevoli eccedenze possono essere annualmente esportate; la sicurezza dei suoi porti; la ricchezza dei suoi mari, dovrebbero renderla consapevole che essa è destinata dalla Natura ad avere un rango distinto fra le Nazioni commercianti dell’Universo”.

Nel 1799, nel suo Memoriale scritto dall’esilio, il leader della Sarda Rivoluzione, Giovanni Maria Angioy, diceva: “Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa”.

Queste parole di fiducia forse suonano lontane. E ancor più lontano suona forse il loro presupposto: “testimoniare pubblicamente l’attaccamento alla patria”, contribuire alla “felicità della Nazione sarda”, fare della Sardegna uno Stato d’Europa. Il punto non è risolvere la distanza fra noi e quel passato in un giorno, tantomeno con un discorso. Il punto è non aver paura a ricordare queste parole e quello spirito, anche queste parole e quello spirito, per cui tanti sacrificarono la loro vita. Se avremo la forza di fare i conti, da domani, nel nostro concreto operare – come Governo, come Parlamento, come classe dirigente, come società sarda nella sua interezza -, con questo lascito, allora apriremo davvero una via, difficile ma necessaria, ad una diversità consapevole, effettiva, produttiva. In altre parole, mentre celebriamo, abbiamo l’occasione di domandarci se sia meglio proseguire con una storia di rivendicazione, in cui noi sardi chiediamo ad altri di farsi carico dei nostri problemi e delle loro soluzioni, o se non sia il caso di entrare in una fase di reale autodeterminazione, in cui plasmare una nuova politica sarda, in cui costruire con tutta la passione e l’intelligenza possibile delle istituzioni al pieno servizio dei sardi e della Sardegna.

Il primo modo per cambiare la propria storia è raccontarla in modo diverso. È raccontarci in modo diverso. Anche a costo di mettere in discussione quegli stereotipi e quell’orgoglioso senso di identità che dietro un velo di confortante abitudinarietà nasconde la difficoltà a darsi valori alti e obbiettivi chiari. Motivi di unità. Motivi per avanzare. Da troppo tempo siamo intrappolati in un racconto che è “contro”. Un racconto in cui altri hanno il potere di decidere della nostra vita e a noi non rimane che ribellarci per rivendicare un trattamento meno opprimente. Ma questa non è la nostra storia. Non è l’unica che il nostro passato ci ha lasciato in eredità. Non è la migliore che possiamo raccontare a noi stessi e, soprattutto, ai nostri figli e alle nostre figlie. C’è una storia di autodeterminazione tutta da scrivere, tutta da fare. E allora quando cantiamo le strofe di “Su patriota sardu a sos feudatarios”, scritto da Francesco Ignazio Mannu nel 1795, durante i moti rivoluzionari e dal 2018 inno della Sardegna, andiamo oltre la rivendicazione e sforziamoci di costruire, progettare, inventare ciò che vogliamo la nostra isola diventi.

Sa Die de Sa Sardigna è l’occasione per ricordarlo a noi stessi”.

La celebrazione de “Sa Die de sa Sardigna” è stata aperta dal presidente del consiglio regionale, Piero Comandini, che ha ricordato il significato storico e valori, e nel ringraziare ospiti e autorità, presenti nell’aula consiliare, si è rivolto con parole di affetto e stima agli studenti degli istituti di Sant’Antioco e Cabras. “In questa giornata solenne – ha detto Comandini – i protagonisti siete voi. Siete voi gli eletti e mi auguro che tutti voi possiate trarre i preziosi insegnamenti di questa giornata storica, che ricorda l’animo e l’orgoglio sardo, insieme con la lotta agli invasori”. Il presidente dell’assemblea ha sottolineato, inoltre, l’importanza di una “…così importante giornata di confronto e riflessione, che potrà contribuire a fare innamorare gli studenti degli spazi delle istituzioni. Abbiamo bisogno della vostra collaborazione – ha insistito Comandini – e anche del vostro dissenso, per riportare la partecipazione attiva all’interno delle istituzioni e ricostruire il rapporto di fiducia istituzioni-giovani-popolo. Nel ricordare “l’orgoglio e la fierezza dei sardi”, insieme con i valori definiti “comuni” dell’identità, dell’autonomia e della specialità, il presidente del consiglio ha elencato le nuove sfide che attendono l’Isola, tra tutte “la rivisitazione dello Statuto sardo in chiave più moderna e europea e la difesa del territorio sardo dagli interessi economici dei signori del vento e del sole”.

Il senatore del Pd, Marco Meloni, ha portato il saluto del presidente di Palazzo Madama, e non ha mancato di ricordare i fatti della “Sarda rivoluzione” e le “lezioni” che da quell’episodio si possono trarre. A giudizio di Meloni, la cacciata dei Piemontesi del 28 aprile 1794 ha avuto “…insegnamenti positivi, come l’essere stati dentro il flusso della storia dell’epoca e l’unità di intenti, e negativi quali possono definirsi l’immediata disunione e il prevalere degli interessi di ceto e di potere”. Il parlamentare del Partito democratico ha quindi rivolto una serie di considerazioni sulle difficoltà che penalizzano la Sardegna (incremento del Pil al di sotto della media nazionale, alto tasso di abbandono scolastico) e ha ricordato alcune norme all’attenzione del parlamento italiano per ribadire la necessità “…di difendere le prerogative della nostra Regione. Si può fare dell’insularità – ha affermato Meloni – il principio chiave per affermare l’equiparazione dei diritti dei cittadini e delle imprese sarde in materie fondamentali. Il senatore ha concluso auspicando un efficace “sistema di confronto e relazione con i diversi livelli istituzionali” e ha definito un’autentica minaccia “per la casa Europea” la messa in discussione delle fondamenta, quali sono la pace, la coesione e la competitività.

Ha quindi preso la parola il professor Gianni Loy, del Comitato Sa Die, con un intervento dal titolo “I segni dell’identità”. Loy ha augurato “…buona festa a chi c’è e a chi è lontano, e soprattutto ai ragazzi e ai tanti che non vogliono capire uno dei segni più importanti del nostro popolo, la lingua che stiamo perdendo e che era stata trasmessa da padre e madre in figlio. Ci hanno privato di uno dei segni più importanti del nostro popolo e lo hanno fatto anche con me ma mi sono ribellato e oggi vi parlo in sardo”. L’intellettuale si è rivolto agli studenti e ha detto: “Sono arrivati a proibire la lingua nella scuola e nella liturgia, ma oggi avete la fortuna di partecipare a una delle celebrazioni più importanti per capire quanto sia importante la nostra identità. Abbiamo una lingua noi sardi e una bandiera, abbiamo un inno quello di “Procura de moderare”. Abbiamo anche la festa che ricorda la cacciata dei piemontesi, ma soprattutto rappresenta il cammino iniziato negli anni ’70 del secolo passato, un processo culturale e politico incentrato sull’autonomismo e sul sentimento di identità. Dovremmo avere tutto, dunque, e invece non siamo ancora a posto fino a quando non avremmo tutti il desiderio di sventolare ovunque la bandiera sarda”. Loy si è chiesto: “Cosa vuol dire oggi essere sardo? Non è la cittadinanza a definire un popolo e nemmeno il territorio perché sono esistiti ed esistono popoli che non hanno il loro territorio. Il segno più importante è il cuore, il sentimento di appartenere alla nazione sarda e al mondo intero. Tutti possono essere parte del popolo sardo, al di là del colore della pelle, al di là della loro provenienza”.

A seguire, il professor Luciano Carta, sempre del Comitato Sa Die, con un intervento sul canto della sarda rivoluzione: “L’inno del Manno è sempre stato l’inno contro ogni prepotenza, ed è dunque il canto di chi ha manifestato da due secoli a questa parte il desiderio più profondo di una società giusta abitata da uomini e donne liberi. Nella Restaurazione questo inno è stato nascosto, come un bandito, ma il canonico Spano lo ha fatto conoscere a metà dell’Ottocento, anche se lo ha definito un canto anarchico. Grazie al poeta nuorese Bustiano Satta, alla fine dell’Ottocento, l’inno è stato tradotto e reso noto a tutti. L’inno è un’opera complessa con 47 ottave non sempre facili da comprendere, con un proemio del poeta che si rivolge ai feudatari. Nella sezione seconda c’è un saggio leggero del poeta sull’universo culturale sardo nell’Illuminismo”. L’intellettuale ha proseguito: “Quest’inno è diventato il canto di tutti quelli che volevano l’abolizione del sistema feudale”.

In aula hanno poi preso la parola tre studenti sardi. La prima è stata Matilde, quinta elementare, vicesindaca del consiglio dei ragazzi di Riola Sardo, che ha ringraziato le istituzioni autonomiste e scolastiche: “Vogliamo ricordare l’importanza per tutti noi sardi di questa giornata per comprendere le nostre radici. Tutti i giorni portiamo avanti le nostre tradizioni facendo apprezzare la nostra identità anche a chi non è sardo e si avvicina al nostro territorio”.

Poi Gabriele, della quinta elementare di Cabras: “Siamo onorati di essere qui, perché abbiamo studiato a scuola come funziona il governo della Regione. Mentre in Francia c’era la rivoluzione e i sardi respinsero i francesi, i Piemontesi erano sordi alle richieste del popolo sardo. Ed è nata così la rivolta. Grazie per averci insegnato tutto questo”.

Per ultimo è intervenuto Valentino, rappresentante della prima classe dell’istituto globale di Sant’Antioco e Calasetta: “Mi sento di parlare a nome di tutti gli studenti della Sardegna, dallo sguardo limpido. Non è passato tanto tempo da quella rivolta e resta viva ancora oggi la capacità di dissentire e di disapprovare ciò che non è giusto. Auguriamo alla neoeletta Alessandra Todde e a tutto il Consiglio regionale buon lavoro ma non dimentichiamo che al centro delle politiche dovranno comunque esserci la persona e la sua dignità. Dobbiamo lavorare per dare terreno fertile ai migliori talenti, potenziando anche i trasporti per gli studenti pendolari. Grazie e Fortza paris”.

Il presidente del consiglio regionale, Piero Comandini, ha ringraziato i tre studenti: “Avete dato una significativa risposta all’idea che abbiamo avuto di partire da voi per celebrare questa festa”.

A seguire, l’intervento dell’assessora alla Pubblica istruzione, Ilaria Portas: “Anche quest’anno il Comitato Sa Die ha fatto un gran lavoro per questa festa, ma prima di tutti ringrazio gli studenti perché sono davvero il futuro della Sardegna. Oggi festeggiamo la lotta e la libertà, l’orgoglio del popolo sardo. E già da domani saremo al lavoro per organizzare la grande festa del prossimo anno. Dobbiamo imparare dai fatti, a volte dagli errori e la Regione cercherà di aiutarvi in questo percorso, per l’avvio di un vero percorso di bilinguismo e a difenderci da un sistema statale che vorrebbe trattarci in modo asettico e omogeneo. Noi sardi e sarde del 2024 siamo chiamati ad essere padroni del nostro destino e non dobbiamo permettere che ci rubino il futuro”.

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