Nov 13

Il segreto di Pulcinella dell’informazione italiana.

“Tutti lo sanno, nessuno lo dice. Eppure è l’anomalia dell’informazione italiana. La stragrande maggioranza dei principali giornali italiani a tiratura nazionale è posseduto da editori in pieno conflitto di interessi.

Cosa vuol dire? Vuol dire che non sono dediti solo all’informazione, come avviene nei paesi anglosassoni per esempio, ma che hanno più interessi in altri settori (energia, cliniche private, cemento) e addirittura nella politica.

Questo comporta che l’informazione fatta da questi giornali deve sempre sottostare agli interessi che ha l’editore nel business e nella politica, due questioni che per anni si sono intrecciate in maniera perversa e anomala. Anziché informare i cittadini, l’obbiettivo diventa orientare l’opinione pubblica dando poca rilevanza a certe notizie, o non pubblicandole, rilanciare notizie tendenziose e in alcuni casi promuovendo vere e proprie fake news per soddisfare gli interessi affaristici o politici dell’editore. Questa non è libertà di informazione, è inquinamento del dibattito pubblico.

Il MoVimento 5 Stelle è per la tutela della libertà di informazione, di stampa e di pensiero. E vogliamo garantire il massimo grado di questa libertà. Ogni volta che ci sono state inchieste eccellenti, come quella di Fanpage sulla camorra in Campania, nel nostro piccolo gli abbiamo dato il massimo del risalto. Il primo fondamentale passo è liberare l’informazione dal conflitto di interessi.  Per lungo tempo il tema del conflitto di interessi è stata all’ordine del giorno nel dibattito pubblico italiano. Si parlava in particolare di Berlusconi che, essendo a capo di un partito e del governo, controllava sia Mediaset, di sua proprietà, che la RAI, tramite la lottizzazione partitica. Oggi non se ne parla più e non perchè il problema sia stato risolto, ma perchè si è ampliato e praticamente quasi tutti gli editori dei principali giornali nazionali si trovano in conflitto di interesse, causando un danno alla qualità dell’informazione italiana che non a caso è considerata dalle classifiche internazionali come parzialmente libera.

La cosa più grave è che il lettore non è informato su quelli che sono i reali interessi dell’editore del quotidiano che acquista e potrebbe quindi pensare che le informazioni che gli vengono propinate siano imparziali, ma così non è. Oppure non viene informato su cose che sono rilevanti per lui, ma scomode per l’editore che preferisce non affrontare quei temi. Anche gli attacchi personali sferrati dai giornali spesso nascondono motivazioni di questo tipo: pensate per esempio al tristemente famoso “metodo Boffo“. Questa situazione anomala dei giornali causa un inquinamento generale di tutta l’informazione mainstream. Come sanno tutti se è inquinata la falda del fiume, sarà inquinato tutto il suo corso fino a valle. Così le notizie di questi giornali influenzano la narrazione fatta dalle tv e dai telegiornali perchè partiranno proprio da quelle per raccontare il mondo.

L’invito è a essere informati sulle proprietà dei giornali e a essere dotati di spirito critico sul modo di dare le notizie. Ma l’obbiettivo di fondo è quello di sanare questa anomalia tutta italiana e incentivare gli editori a non essere in conflitto di interesse nè con altri settori di business nè con la politica, per garantire a tutti un’informazione libera e imparziale. Questa è la battaglia di chi ama davvero l’informazione.

Di seguito riportiamo i top 5 giornali italiani con i conflitti di interesse grossi come una casa, ma su cui tutti fanno finta di nulla. La loro informazione, secondo voi, è libera? 1) La Repubblica, Marco De Benedetti – interessi industriali – figlio di Carlo De Benedetti, tessera numero uno del Pd; 2) La Stampa, Marco De Benedetti (idem come sopra); 3) Il Giornale, Paolo Berlusconi – fratello di Silvio Berlusconi, presidente di Forza Italia; 4) Il Messaggero, Francesco Gaetano Caltagirone – interessi industriali ; Libero Quotidiano, Antonio Angelucci – interessi industriali .

In post successivi approfondiremo il profilo di ogni singolo editore citato, quindi gli interessi industriali e gli intrecci con il partito di riferimento, e anche di altri che non sono affrontati in questa sede. E’ importante infine ricordare che quasi tutti questi editori possiedono anche molte testate locali, ma anche questo sarà occasione di approfondimento successiva”. (Movimento 5 Stelle, www.il blogdellestelle.it).

Se il governo in carica cercava un modo sbagliato per iniziare uno scontro con i giornalisti e il sistema dei media, allora lo ha trovato al primo colpo. Insulti e sparate sono cadute di stile e funzionano bene per compattare una categoria che più debole, divisa e in crisi d’identità non si può. Certamente non per mettere in evidenza cosa non va nell’informazione italiana. Quello del giornalismo è un paradosso: nell’era dove tutto è informazione, l’informazione tout court non vale più nulla, i giornali chiudono e il numero di giornalisti è in rapido declino. In Italia lo stato di putrefazione di questa attività è ben avanzato: in dieci anni le testate hanno (più che) dimezzato il numero delle copie vendute e dei redattori, la stragrande maggioranza dei giornalisti svolge l’attività senza contratto, con pagamenti a pezzo oppure – semplicemente – scrive a titolo volontario. In Italia, nel 2018, si vendono meno giornali che in Olanda, Paese con un terzo della popolazione, e i modelli con paywall o abbonamento digitale non sembra riescano a decollare. Ecco, il vicepremier ha scelto – per sganciare la bomba atomica – un contesto professionale già pesantemente compromesso. La crisi economica, Internet e la disaffezione nei confronti della politica e di una professione considerata da molti – troppi – un passatempo travestito da impiego hanno già spazzato via gran parte delle realtà indipendenti e rischiano di mettere seriamente a rischio la sopravvivenza di tutte le testate. A breve potrebbero rimanere solo il giornalismo amatoriale, mentre l’angusto perimetro di quello professionale potrebbe essere diventato solo appannaggio di pochi benestanti. Eppure, se i giornalisti fossero rispettati, avessero l’autorevolezza di una volta e soprattutto godessero di una posizione economica solida, gli insulti da parte di esponenti del governo alla categoria sarebbero niente più che materiale per Crozza o per qualche vignetta satirica. Purtroppo la crisi ha colpito tutto, la tasca e i valori, stritolando la professione e costringendo lavoratori ed editori a una spirale senza fine di compromessi al ribasso. Che hanno messo in discussione tanto la capacità negoziale interna quanto il prodotto finale: poche sezioni tengono in piedi i quotidiani o i periodici mentre esteri, cultura e altre categorie di qualità – ma con meno seguito – sono letteralmente sparite. Se un tempo i media contribuivano a educare o indirizzare la popolazione, oggi sono ridotti a rincorrere l’agenda che fa più rumore. Da watchdog a pet, il passaggio è stato più breve di quanto si potesse immaginare. Il mondo del giornalismo in Italia, insomma, è un corpo in avanzato stato di decomposizione già da prima che i 5 stelle lanciassero questa facile e remunerativa campagna contro chi appare all’esterno ancora tanto forte e autorevole, ma campa solo di rendita sul glorioso passato. Un grande bluff alimentato in primis dall’immagine che diamo noi giornalisti: il cittadino medio è convinto di parlare a un potente, membro di una casta chiusa e monolitica, mentre nella realtà gran parte di chi svolge questo lavoro – e non può contare su altre entrate – vive ben al di sotto della soglia di povertà, senza alcun potere negoziale, saltando da una collaborazione occasionale all’altra. Se “puttane” e “pennivendoli” deve essere, almeno che sia a champagne e caviale, non a pizza al taglio e Peroncino dell’alimentari. Se bersaglio del governo è quel piccolo club privato di firme note oppure l’esercito di precari che fatica a mettere insieme pranzo e cena, non è dato sapere. Certamente se il mondo dell’informazione italiano sapesse autotutelarsi un po’ meglio, a partire dal tutelare la sua stessa sopravvivenza pagando il lavoro e garantendogli continuità, non avrebbe bisogno della protezione simbolica di quel buffo ente pubblico che per ora rappresenta la categoria. L’ente in questione, l’Ordine dei giornalisti, è tanto incomprensibile quanto inspiegabile a chi lontano dai confini nazionali svolge questa professione. Come fai, da giornalista, a dire ai colleghi stranieri che in Italia esiste una pseudo funzione religiosa anche per fregiarsi del titolo di giornalista? E soprattutto, a quelli che chiedono “E se scrivi su un giornale senza permesso di questa organizzazione, cosa succede?”, cosa rispondi di sensato? Probabilmente dovresti rispondere che l’Italia è l’unico Paese in Europa dove – sulla carta – i giornalisti godono delle tutele di un ente pubblico eppure sono quelli più odiati dai concittadini e meno pagati del continente. In Olanda, dove vivo, sono iscritto al Nvj (Nederland Vereninging van Journalisten), associazione olandese dei giornalisti, un’organizzazione di categoria che tutela la deontologia, tutela il lavoro degli iscritti e nella quota annuale offre anche assistenza legale, il commercialista, corsi di aggiornamento e si impegna per aiutare gli iscritti a trovare lavoro retribuito. Nei Paesi Bassi la professione non è disciplinata e diventa giornalista chi scrive o lavora come giornalista. Semplice, no? La responsabilità della tutela della deontologia è divisa tra le testate e le associazioni di categoria, senza bisogno dell’investitura feudale di un ente che l’Italia ha ereditato dal periodo più buio della sua storia recente. In Olanda per ottenere il tesserino è necessario mostrare attività giornalistica recente: l’associazione non vuole creare circoli del tennis ma garantire che videomaker, editor on line, freelance della carta stampata, data journalists, vignettisti, fotografi e le altre mille sfaccettature di questa complessa attività godano della tutela necessaria. Viene da sé che giornalisti ben pagati e motivati, in un sistema mediatico sano dove i giornali chiudono ma ne aprono poi degli altri, dove si sperimenta con forme ibride di informazione e lo Stato investe attivamente con fondi appositi per le start-up giornalistiche, nessuno ha bisogno di tutele solenni o club privati. E soprattutto, nessuno teme il politico chiacchierone di turno. (dal blog di Massimiliano Sfregola, giornalista, editore e blogger).

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