Ott 06

A Ghilarza rischia di chiudere anche la sede Inps.

Non basta la protesta in difesa dell’ospedale, ora Ghilarza si appresta ad affrontare un’altra battaglia per difendere la possibile chiusura della sede Inps.

C’è, infatti, anche Ghilarza tra le 11 sedi Inps, su 19, a concreto rischio di chiusura in Sardegna.

Lo ha denunciato il segretario generale della Funzione Pubblica della Cisl, Davide Paderi. “Da tempo, il vertice nazionale Inps – ha detto Paderi – cerca di ridimensionare la presenza nell’Isola, applicando schemi e teorie chiaramente non calibrate su una realtà come quella sarda. Anche il blocco del turnover ha colpito l’Inps in Sardegna, infatti nell’Isola gli operatori sono scesi a meno di 800.

Nonostante tutto l’Inps torna all’attacco, dopo alcune frenate momentanee, sempre con il discorso della chiusura di 11 uffici territoriali; una scelta nefasta che porta con se solo elementi negativi per l’utenza di interi territori”.

Paderi ha lanciato un appello alla politica sarda (per quel che serve, considerato la totale passività della disastrosa giunta Pigliaru e del Pd che, chiacchiere a parte, non sono mai riusciti a difendere lo smanellamento degli uffici pubblici in Sardegna. ndr) “…perché faccia sentire la sua voce, assieme ai parlamentari, per scongiurare una decisione che potrebbe giungere a breve, in applicazione della Circolare 96/2018.

I nuovi parametri, cioè una popolazione residente servita superiore ai 60.000 abitanti e i lavoratori assegnati devono essere superiori alle 10 unità lavorative sono assurdi e, di fatto, inapplicabili per la Sardegna”.

La presidenza del consiglio regionale ha convocato le parti sociali per il prossimo 10 ottobre, dopo le proteste sindacali, e dei comitati provinciali e regionale dell’Inps.

I piccoli comuni italiani continuano a spopolarsi e a consumare suolo. Le aree interne sono però quelle più propense alle fusioni tra municipi. E proprio queste aggregazioni possono essere la base per intraprendere percorsi di crescita sostenibile.

Un paese di piccoli comuni

Nonostante il successo di numerosi percorsi di aggregazione l’Italia rimane un paese di piccoli comuni. Al 30 giugno 2018, secondo i dati Istat, i municipi con meno di 5 mila abitanti sono oltre 5.500, pari a quasi il 70 per cento del totale. In termini aggregati mettono insieme quasi 10 milioni di persone, più del 16 per cento della popolazione italiana. Secondo un recente report dell’Anci, nei piccoli centri si vive bene: meno inquinamento, più fiducia nei rapporti sociali, costo della vita più basso, maggiore sicurezza. Eppure, lo stesso rapporto certifica il loro spopolamento, con quasi 74 mila abitanti in meno dal 2011 solo per i cambi di residenza: è evidente come le persone si spostino alla ricerca di maggiori opportunità e migliori servizi. Negli ultimi anni si sono intensificati i tentativi di aggregazione delle amministrazioni locali. Spinti da consistenti incentivi nazionali e regionali, molti comuni hanno intrapreso percorsi di fusione, con l’obiettivo di fornire servizi più efficienti e rilanciare il proprio territorio. Tali iniziative si concludono con un referendum consultivo finalizzato a rilevare l’interesse della popolazione all’aggregazione. Non è un caso se le aree interne del paese mostrano una maggiore propensione alla fusione tra municipi, come evidenziato dall’indicatore che confronta la distribuzione dei comuni andati a referendum con quella complessiva: proprio le aree interne (indice 1,23) – e in particolare i comuni classificati come periferici (indice 1,62) – registrano i valori maggiori.

E intanto si continua a consumare suolo

La frammentazione amministrativa del nostro paese è responsabile anche dell’eccessivo consumo di suolo: una sorta di patologia grave della contemporaneità non solo in chiave ecologica, ma anche sociale per i vari effetti negativi come, ad esempio, l’innalzamento della spesa pubblica (un ettaro cementificato richiede un costo di “gestione idrica” di 6.500 euro all’anno). Tematiche strategiche e urgentissime, ma assenti nel rapporto dell’Anci. Su questo fronte, si può comprendere il ruolo dei piccoli comuni aiutandoci con l’indicatore di consumo marginale di suolo, dato dal rapporto tra suolo appena cementificato e nuovi abitanti insediati. Secondo il rapporto 2016 Ispra, sebbene il valore assoluto degli ettari consumati sia inferiore, i comuni con meno di 5 mila abitanti sono peggiori consumatori di suolo rispetto a quelli con più di 25 mila abitanti. I piccoli consumano dalle due alle sette volte di più: 700 metri quadri per ogni nuovo residente nei comuni con 500-2 mila abitanti, tra il 2012 e il 2015, contro i 100 circa dei comuni con più di 50 mila abitanti. Si aggrava così il costo degli effetti negativi per i pochi che lì abitano. I piccoli comuni sono dunque ancor più impantanati degli altri in una pratica dell’urbanistica inadeguata alle sfide di oggi e domani. Sindaci, imprese e cittadini brandiscono ancora vecchi modelli di sviluppo e scontano gli effetti disastrosi di dodici anni in cui il consumo di suolo è servito a dare una sistemata ai bilanci comunali, usando gli oneri di urbanizzazione per tutte le spese possibili. Quel continuo consumo di suolo è la conseguenza di un intreccio di mediocrità, miopie ed egoismi, orgogliosamente figlio dell’incultura della frammentazione amministrativa che specula su inutili utilità locali. Occorrerebbe invece guardare oltre e, con coraggio, rimettere alcune competenze nelle mani della cooperazione tra comuni, come quelle sull’uso del suolo e di altre risorse ambientali.

Il futuro si costruisce in rete

Un possibile futuro per i piccoli comuni, dove i giovani tornino a vivere e fare impresa, ha bisogno di proposte che, innanzitutto, devono legarsi alla capacità di fondersi e fare assieme: vuoi sposando modelli turistici lenti, appoggiati a infrastrutture per la mobilità dolce e lunga, vuoi facendo solo rigenerazione urbana, vuoi con l’agricoltura di qualità e le piccole produzioni (ma in rete), vuoi riprendendo a essere orgogliosi di quei patrimoni culturali diffusi e vari che, invece, sono stati soffocati dalla polverizzazione e ritenuti, erroneamente, di poco conto e interesse per immaginare occupazione, economia e valori civili per il futuro dei territori fragili. In questa prospettiva, allora, i percorsi di aggregazione, soprattutto nelle aree più periferiche, possono rappresentare l’occasione per risolvere i problemi di isolamento e bassa crescita, impostando in maniera coordinata progetti strategici di area vasta, condotti oltre gli angusti confini amministrativi di oggi. (www.lavoce.info, a cura di Alberto Cestari, esperto di finanza pubblica territoriale; Riccardo Dalla Torre, economista del territorio; Paolo Pilleri, docente pianificazione territoriale ambientale)

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