Apr 04

Piano regolatore per il porticciolo di Torre Grande.

Il porticciolo di Torre Grande potrà contare su un Piano regolatore portuale che ne disegnerà l’assetto funzionale, spaziale ed organizzativo.

Lo farà realizzare il comune di Oristano, che ha pubblicato un avviso per conferire l’incarico a tecnici liberi professionisti ingegneri e/o architetti, ovvero studi professionali e/o associazioni temporanee di professionisti o società d’ingegneria.

Il piano potrà essere redatto grazie a un finanziamento di 55 mila euro, assegnato dalla Regione al comune di Oristano. La Regione Sardegna, come altre regioni italiane, si riserva la competenza nella gestione del demanio marittimo portuale, perchè nei porti sono espletate funzioni e attività che hanno una rilevanza economica e sociale regionale. Funzioni e attività che devono essere pianificate in un’ottica di sistema, in modo tale da integrare i ruoli dei diversi porti e bilanciare il rapporto domanda/offerta nei diversi territori.

“Il passaggio ai comuni deriva dal fatto che le amministrazioni comunali, in cui i porti si inseriscono, conoscono in modo puntuale le realtà locali e rappresentano le esigenze del territorio fisicamente connesso al porto – hanno detto il sindaco, Andrea Lutzu, e l’assessore all’Urbanstica, Federica Pinna -. Per questo motivo ai comuni viene affidato un ruolo attivo nel proporre le strategie di piano e, quindi, nella redazione del Piano regolatore portuale, affidando a loro la redazione dello strumento di pianificazione”.

“La Regione, nell’adozione e approvazione dei piani, assume una importante valenza, dato il carattere di sperimentazione che l’attività di pianificazione portuale riveste per i territori – ha proseguito l’assessore Pinna -. Interviene per garantire omogeneità di indirizzi progettuali tra tutti i comuni interessati e per definire in termini di positivo coordinamento il suo ruolo nei confronti dei comuni. La redazione del Piano regolatore portuale assume una importanza particolare perché si inserisce alla perfezione nelle politiche generali di rilancio del porticciolo e, più in generale, di Torre Grande, che la giunta Lutzu intende attuare nel corso del suo mandato amministrativo. Sarà un prezioso strumento per la corretta pianificazione e programmazione delle attività del porto, in grado di disegnare l’assetto funzionale, spaziale e organizzativo dello scalo, oltreché individuare le forme di connessione più consone con il tessuto territoriale circostante, al fine di garantire la continuità, l’integrazione di funzioni, e la congruenza tecnica rispetto alla pianificazione urbana”.

D’ora in avanti gli abitanti del quartiere della “Sartiglia” potranno recarsi nell’area commerciale, in prossimità dello svincolo per via del Porto, con facilità e in sicurezza. Da ieri mattina, infatti, è operativo il nuovo attraversamento pedonale che mette in collegamento le zone est e ovest della città separate dalla via Cagliari, che in quel punto è particolarmente trafficata. L’attraversamento è stato realizzato dal Comando della Polizia locale, apportando alcune modifiche al semaforo esistente, tracciando la segnaletica orizzontale e aggiungendo alcune lanterne pedonali. “L’intervento per mettere in collegamento il popoloso quartiere con i centri commerciali – ha spiegato l’assessore ai trasporti e viabilità, Pupa Tarantini – è stato eseguito tenendo in considerazione le legittime aspettative degli abitanti e la necessità di non appesantire il traffico che, soprattutto in alcuni orari, in quel punto risulta particolarmente intenso. Per questo motivo l’impianto semaforico è stato adeguato alle esigenze, intervenendo solo minimamente nei tempi di accensione delle varie fasi, in modo da consentire un attraversamento sicuro per i pedoni”. Particolare cura è stata dedicata allo studio precedente alla realizzazione per l’individuazione del punto migliore in cui eseguire l’attraversamento, mantenendo presenti la morfologia del luogo, la visibilità e l’alta intensità di traffico dell’ingresso sud della città.

Sostenere le persone che affrontano un tumore attraverso un piccolo, ma significativo gesto: delle cuffie di lana lavorate a mano in dono a chi ha perso i capelli a causa della chemioterapia. L’idea è venuta a un gruppo di circa quaranta signore di Oristano e Silì. Le donne, accomunate dall’hobby per la maglia, aderendo all’iniziativa nazionale “Quello che ho”, hanno scelto di mettere la loro passione e i loro lavori a disposizione di chi è affetto da una patologia oncologica, realizzando 45 chemocaps, cappellini utilizzati per coprire il capo durante la chemioterapia, che saranno regalati alle pazienti dell’Unità operativa di Oncologia dell’ospedale San Martino di Oristano. Già dal 2014 le volontarie collaborano con la Onlus “Cuore di maglia”, realizzando scarpine, cappellini, copertine e corredini in lana per riscaldare i piccoli nati prematuri, e i bambini di famiglie in difficoltà. I manufatti, rigorosamente realizzati con filati di qualità, vengono abitualmente donati al nido del punto nascita oristanese e del Cto di Iglesias, in occasione del Natale e della festa della mamma. Talvolta può accadere che i capi vengano inviati per integrare il fabbisogno di alcuni tra gli altri 55 ospedali italiani che beneficiano di questa attività, che mira a rendere più umana e confortevole la permanenza in ospedale sia del piccolino che dei genitori. Dallo scorso anno, però, il gruppo delle “Knitter” ha abbracciato anche un’altra causa: quella delle pazienti oncologiche. “Nel 2017 – ha spiegato Paola Serra, coordinatrice del gruppo – abbiamo scoperto il progetto “Quello che ho”, nato per raccogliere modelli per la realizzazione di chemocaps, e abbiamo deciso di aderire. Lo scorso anno abbiamo inviato i nostri lavori a una struttura di Milano, mentre quest’anno abbiamo proposto la nostra idea all’Oncologia del San Martino, che la ha accolta con piacere”. Pochi giorni fa la consegna delle cuffie di lana. “Ora – ha anticipato Paola serra – ci metteremo all’opera per realizzare i copricapo di cotone, adatti alla stagione estiva”. Tutti i capi realizzati sia per conto di “Cuore di Maglia” che per conto del progetto “Quello che ho”, vengono rigorosamente donati gratuitamente alle strutture sanitarie e sono frutto di un lavoro volontario e autofinanziato.

Venerdì 6 aprile, alle 18, all’Antiquarium arborense di Oristano, inaugurazione della mostra
“Carlo Alberto archeologoin Sardegna – Gli isoli bugiardi”. La storia è degna del migliore dei gialli, con tanto di truffa, e vede per protagonisti niente meno che un sovrano e un abile funzionario dello Stato. Si tratta della vendita di 330 falsi bronzetti a Carlo Alberto di Savoia, da parte del direttore del Museo di Cagliari, Gaetano Cara. Parte di quella collezione, 70, è in mostra da qualche giorno nei Musei reali di Torino, ma la parte più consistente, 150, da venerdì 6 aprile sarà in esposizione a Oristano, all’Antiquarium arborense. Stamattina c’è stata la presentazione in anteprima ai giornalisti da parte del sindaco, Andrea Lutzu, dell’assessore alla Cultura, Massimiliano Sanna, e del curatore dell’Antiquarium arborense, Raimondo Zucca. Il Museo di Oristano, per celebrare i suoi ottant’anni (è nato nel 1938), grazie alla sinergia tra la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Cagliari (Soprintendente Fausto Martino) e i Musei Reali di Torino (Direttrice Enrica Pagella), presenta la storia che continua. Quella aperta, il 22 marzo scorso, nelle sale del Museo di Antichità di Torino (direttrice Gabriella Pantò), su “Carlo Alberto archeologo in Sardegna”. Il Re Carlo Alberto fu, effettivamente, archeologo nell’Isola, effettuando diversi scavi archeologici: al nuraghe Santu Antine di Torralba e a Turris Libisonis nel 1829, a Nora e Tharros nel 1841, e a Olbia nel 1843; con la partecipazione speciale, in questi ultimi tre scavi, del direttore del Museo di Cagliari, Gaetano Cara. Cara, classe 1803, cagliaritano, fu il vero padrone dei Musei cagliaritani (zoologico, mineralogico, archeologico) dell’Università. Legato da amicizia strettissima con Alberto Lamarmora (rivelatore con i propri studi della Sardegna al continente europeo) e ai coetanei Giovanni Spano (ploaghese), ed Efisio Luigi Tocco (cagliaritano), entrambi archeologi. I tre archeologi (Cara, Spano e Tocco) scavarono insieme in numerosi luoghi della Sardegna, ma per impellenti necessità di carriera e danaro iniziarono anche altre attività. Gaetano Cara si occupò di due affari lucrosi: lo scavo archeologico a Tharros e la vendita di quattro collezioni tharrensi al Louvre, al British Museum, all’asta di Christie’s a Londra, e alla Provincia di Cagliari (tra il 1856 e il 1863). Nonchè la falsificazione di circa 330 idoli sardo-fenici, venduti al Museo di Cagliari, alla collezione reale di Carlo Alberto e al Museo di Lione, da cui ricavò il corrispettivo 823.087,88 euro. I due sodali di Cara, Tocco e Spano, non denunziarono i malaffari, se non a partire dal 1849. Tocco mirava a rivestire la carica di Commissario delle Antichità in Sardegna. Dal 1876 Spano voleva, infatti, liquidare il vecchissimo direttore museale Cara per fare posto al giovane archeologo Vincenzo Crespi, formato dallo stesso Giovanni Spano. Da qui il sospetto di una tolleranza (o di una partecipazione diretta) sull’affare degli idoli sardo-fenici da parte degli archeologi Tocco e Spano. Il fatto è che compromesso due volte in questo affare era lo stesso Alberto Lamarmora, che sin dal 1830, e poi nel 1840 (con il Voyage en Sardaigne) e nel 1853 (con l’edizione del Taccuino del notaio Gilj delle Carte d’Arborea che era accompagnato da disegni, falsi, degli idoli sardo-fenici) aveva diffuso in tutta l’Europa scientifica i mirabolanti idoli sardo-fenici. Fu Ettore Pais, nuovo direttore del Museo di Cagliari, nel 1883 a mettere fine allo scandalo di questi idoli falsi, che costituivano “…il migliore ornamento del Museo cagliaritano”, relegando in una cassa, col numero d’inventario 6194, i “turpi idoli falsi e bugiardi”. Nel 1974 fu Giovanni Lilliu, il più grande archeologo della Sardegna, a studiare gli idoli falsi e il loro contesto storico, auspicando una esposizione che spiegasse il significato culturale dell’indegno “affaire” degli idoli sardi. Sta di fatto che il ricchissimo direttore del Museo di Cagliari, Cara, riuscì nell’intento di gabbare un Re come Carlo Alberto), il cui figlio, Vittorio Emanuele II, concesse a Cara il cavalierato dei SS. Maurizio e Lazzaro. Cara imbrogliò anche una infinità di studiosi e di archeologi europei, tra cui il danese Friedrich Münter, i francesi Charles Lenormant e Ernest Renan, il celebre autore della Mission en Phènicie, il prussiano Eduard Gerhard, fondatore dell’Instituto di corrispondenza archeologica Germanico di Roma, il primo ad attribuire la gran parte dei vasi figurati in Etruria alle officine ateniesi. Non è un caso che la truffa degli idoli sardo-fenici sia segnalata in tutti i trattati di falsificazione delle antichità, come quello di Otto Kurz, Falsi e falsari, Vicenza 1996, dove si ricorda che un idolo sardo-fenicio a tre teste, presente nell’esposizione oristanese, ingannò nel 1948 un professore di indologia dell’Università di Bonn, che lo considerò autentico. Gli idoli sardo-fenici vennero distinti dai bronzi nuragici autentici (che rappresentano guerrieri, principi, sacerdotesse, popolani, animali, manufatti, modelli di nuraghi e di navicelle, dell’universo sardo del IX-VIII secolo a. C.) come rappresentazioni fantastiche di divinità sarde ispirate dai Fenici, che raggiunsero le coste della Sardegna intorno alla seconda metà del IX sec. a. C. I falsari crearono diverse categorie di idoli, che raccontavano un universo di dei antropomorfi e antropozoomorfi: dei-uomini o dei mostruosi che mescolavano tratti umani e tratti bestiali. Accanto, dunque, agli idoli “di ispirazione orientale” abbiamo una seconda grande categoria di idoli-diavoli, su cui si soffermò puntualmente Giovanni Lilliu nel 1974. Si tratta di rappresentazioni orripilanti di diavoli spesso asessuati, con corna diaboliche, coda e forcone a tre o due rebbi, che derivano dall’immaginario medievale del diavolo, talora con la pelle da sauro, talaltra con una seconda faccia sul ventre che conosce precise ascendenze nella rappresentazione di diavoli medievali.

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